«Sono nato nel silenzio
e in silenzio voglio andarmene»
Amo particolarmente questa foto del primo marzo 2014, giorno del ricevimento della berretta cardinalizia, poiché mi pare che in essa ci sia tutta la gestualità di monsignor Capovilla: lo sguardo acutissimo nonostante i quasi cento anni, la signorilità dell’atteggiamento, il sorriso disegnato sul volto, il corpo proteso verso l’interlocutore, gli occhiali nella mano destra e soprattutto la sinistra poggiata sul petto, che batteva con forza ogni volta che voleva rimarcare le parole o i contenuti, quasi per scandirli meglio[1]. In questa immagine, colta al di fuori dell’ufficialità, poco prima della solenne cerimonia, ritrovo la sua paterna fisionomia morale nella quale traspare serenità e capacità di mantenere la misura delle cose. Non si montava mai la testa, e lo aveva dimostrato proprio nel momento della nomina cardinalizia, il 12 gennaio, quando aveva dedicato subito questo riconoscimento agli umili preti sparsi per il mondo, i preti che nessuno conosce ma che servono la Chiesa nel silenzio e nel nascondimento:
Lo stesso sentimento l’ho provato quando a mezzogiorno di due anni fa il Papa Francesco ha fatto i nomi [dei nuovi cardinali]. Io ho ascoltato stando seduto; ero solo qui, ho ascoltato in silenzio e non ho immaginato niente. È saltato fuori il mio nome e ho continuato a mangiare il boccone che mi è sceso lo stesso; poi ho pensato e l’ho detto subito (e so di aver fatto piacere a tanti bravi e umili sacerdoti): il Papa elevando me al rango di cardinale di Santa Romana Chiesa ha inteso elevare tutti coloro – sacerdoti o missionari – che in tutto il mondo hanno vissuto una vita di povertà, castità ed obbedienza. Umili e obbedienti, umili e servitori del loro popolo. Hanno avuto la stima del popolo, hanno avuto magari anche dei funerali solenni col pianto di tanti e tanti fedeli, ma non hanno avuto niente altro, non sono stati fatti né cavalieri della Repubblica, né monsignori della Santa Sede. Con la loro tunica sdrucita e nera sono scesi nel sepolcro, e così sono ricordati[2].
[1] Riprendo qui quanto già scritto nella postfazione a Forzare l’aurora a nascere, Grafica e Arte, Bergamo 2017, p. 215.
[2] Dall’Omelia per il centesimo compleanno, sempre in Forzare l’aurora a nascere, p. 20.
UN FIORE E NIENTE PIÙ
«Un fiore sulla tomba»: sono tra le ultime parole dette dal cardinal Capovilla quel 16 maggio 2016, parole rimaste impresse nella memoria dei pochi che erano presenti nella sua stanza di ospedale[1]. Quasi un suggerimento su come avremmo dovuto ricordarlo, nell’imminenza di una fine di cui aveva piena coscienza e che viveva cum timore et tremore – con timore e trepidazione – per l’avvicinarsi a un passaggio misterioso verso l’eterno. Anche in quel momento, fisicamente stremato dopo i lunghi giorni di malattia, la semplicità dell’uomo che non voleva clamori è emersa con forza. «Sono nato nel silenzio e in silenzio voglio andarmene», ha ripetuto più volte. Un fiore e niente più.
A otto anni dalla morte,vorrei ricordare monsignor Capovilla raccontando un semplice episodio di vita. Nel mese di aprile, quando era già ricoverato, aveva espresso il desiderio di riascoltare una vecchia canzone che non sentiva da molti anni, impressa però nel suo animo per la dolcezza delle parole, Lili Marlen, nella versione cantata da Lina Termini:
Tutte le sere
sotto quel fanal
presso la caserma
ti stavo ad aspettar.
Anche stasera aspetterò,
e tutto il mondo scorderò.
Con te Lili Marlen,
con te Lili Marlen
Prendi una rosa
da tener sul cuor… [2].
Dopo aver ascoltato le strofe iniziali, con voce rotta dalla commozione (e ogni parola già gli costava fatica) disse: «Che bello! Il ragazzo che aspetta con un fiore la sua innamorata, che bello…», e mentre lo diceva alzava la mano destra quasi come se tenesse un fiore in mano: chi ha conosciuto monsignor Capovilla sa di cosa parlo, di quale mimica, contenuta ma efficacissima, fosse capace.
In queste poche parole, pronunciate alla fine della vita, si esprimeva tutta la sua sensibilità nel capire e valorizzare l’amore tra un uomo e una donna: un amore puro, che sapeva sconfiggere per un attimo anche gli orrori della guerra. Orrori e malinconie che lui stesso aveva conosciuto molto bene fin da bambino. Sapeva far suoi i sentimenti, le gioie e le sofferenze della gente. Potrebbe valere anche in questo caso l’espressione usata dal cardinal Montini per Papa Giovanni: «Sapeva toglierti l’affanno dall’animo».
«… E, POCO DISCOSTO, UNA FANCIULLA
CHE EGLI SENTE DI AMARE»
Dove aveva udito per la prima volta questa canzone? Probabilmente l’aveva ascoltata più volte tra gli avieri dell’aeroporto militare di Parma, dove il giovane don Loris fu cappellano dal dicembre 1942 fino all’8 settembre del ’43. La canzone del soldato che, fuori dalla caserma, attende con ansia la sua fidanzata per l’ultimo incontro prima della partenza per il fronte, era divenuta popolare tra i soldati di ogni bandiera, affratellandoli, anche se le autorità tedesche avevano tentato di osteggiarne la diffusione radiofonica, ritenendola di tono implicitamente disfattista; per converso i comandi alleati la ritenevano troppo ‘tedesca’.
Monsignor Capovilla era ben capace di comprendere l’amore di due giovani, lui che da sacerdote certo non aveva potuto sperimentare questo sentimento: ma ne capiva la purezza e la profondità, elevandolo quasi a preghiera verso Dio. Con tratti di grande delicatezza, il tema della giovinezza cristiana, dell’amore tra un uomo e una donna e della vocazione a formare una famiglia ricorre in molti suoi scritti, per esempio in questo ritratto di un giovane aviere vergato in una notte dell’agosto del 1943, mentre suonavano le sirene per l’allarme aereo:
Rivedo il primo incontro. Eccolo nel mio ufficio e mi siede di fronte. Parlo per scandagliarne l’anima. Ci vuole tanto poco. È un libro aperto, questo figliolo. Non ha detto che poche parole e io ho letto la trama delicata della sua giovinezza, e la luce interiore che lo rende amabile mi si è disvelata.
[…]. Lassù, in un paesello che gli procura momenti di nostalgia, vivono la mamma e, poco discosto, una fanciulla che egli sente di amare.
Il suo è un amore sereno, limpido, sconfinato; giacché non si arresta quaggiù, ma porta a Dio.
[…].Il suo nome?… Esso sta scritto nel libro della vita e io vi stampo sopra la mia sacerdotale benedizione, che pone suggello con la preghiera e con la parola al ventennio di vita per il via alle nuove conquiste.
***
Caro Padre,
il tempo passa inesorabile, scorrono gli anni senza più poter sentire la sua viva voce. Ma con il suo stile e la sua dedizione lei ha lasciato un esempio che cerchiamo di seguire nell’impegno a mantener viva la memoria sua e di Papa Giovanni.
Alla schiera dei compagni di viaggio che ci hanno lasciato, lunedì 15 aprile, a Roma, si è aggiunto purtroppo un nostro caro amico: Carlo Di Cicco. Già vicedirettore dell’Osservatore Romano dal 2007 al 2014 e vicino alla spiritualità di Don Bosco, per tutta la vita si era attivamente impegnato sui temi della pace, della giustizia e del rinnovamento ecclesiale. Nel corso di lunghi anni lei ne ha ben conosciuto la lealtà e la disinteressata amicizia. Anch’io posso confermare la sincerità di Carlo, che ha sempre mantenuto la promessa di starmi vicino negli anni difficili dopo la sua scomparsa.
IVAN BASTONI
Giacomo Manzù, Margherita, 1944, inchiostro su carta, cm 23,5×15, Fondazione Credito Bergamasco, in deposito alla Gamec, Accademia Carrara di Bergamo.
[1] Cfr. il pieghevole del 26 maggio 2017, Il primo anno trascorso accanto a Dio.
[2] Lili Marlen, testo di Hans Leip (1915), musica di Norbert Schultze (1937), tradotta in italiano da Nino Rastelli nel 1943.
Email: ivan.bastoni@libero.it
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