2016                26 maggio                  2023

settimo anniversario della morte

del Cardinale Loris Francesco Capovilla

Don Loris, come era ai tempi di papa Giovanni ai piedi di Papa Giovanni, come servo fedele , contubernale, che a mio avviso chi osserva il quadro può pensare che sia papà giovani padre porge un foglio a monsignore o può essere monsignore che pone tra le mani del papa un libro ma ciò che credo accomuni tutti è di percepire un legame filiale a paterno che si è poi manifestato negli anni per il servizio reso da Capovilla per la testimonianza di monsignore Capovilla.

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È il settimo anniversario della morte del Cardinale Loris Francesco Capovilla. A questa ricorrenza se ne affiancano altre due, entrambe particolarmente significative: il sessantesimo dell’enciclica Pacem in terris, promulgata l’11 aprile 1963, e quello della morte di Papa Giovanni XXIII, seguita di lì a poco il 3 giugno 1963.

«Mestizia grande»

Siamo andati a rileggere l’agenda di monsignore Capovilla alla data del 26 maggio di sessant’anni fa. Poche frasi, vergate si può dire presso il capezzale del Papa, in cui si legge il dolore trattenuto di un figlio spirituale che presagisce l’ultimo tratto di vita non solo del Padre suo, ma di tutta la cristianità.

Impressiona l’annotazione delle ore 12: il segretario del Papa riesce quasi a farci sentire accanto a lui, in quello spazio chiuso e silenzioso in cui tutto assume un nuovo valore, alla luce di un passo definitivo. Poche le persone ammesse: il  cardinale segretario di stato Amleto Cicognani, il cardinale Angelo Dell’Acqua e suor Angela Roncalli, nipote del papa e figlia di Giovanni Roncalli, a rappresentare gli affetti familiari.

Attento a cogliere gli ultimi gesti e le ultime parole del Papa, Capovilla ci consegna l’immagine di vegliardo che guarda «invano» a quella finestra da cui tante volte si era affacciato.  Proprio lui, il 9 novembre 1958, aveva inaugurato la tradizione dell’Angelus domenicale in piazza San Pietro, il suo dialogo paterno con i fedeli e tutti gli uomini di buona volontà. Forse, ora, da quella finestra il Santo Padre avvertiva la presenza dei fedeli sul grande sagrato, ascoltava il suono delle campane di Roma, seguiva il volgere delle ultime giornate segnalato dal variare della luce e dal cadere dell’ultima ombra sui vetri di quella finestra sul mondo.

Come già osservato altre volte, negli scritti di monsignor Capovilla nulla è casuale, anche in appunti come questi che hanno un aspetto di immediatezza e di puro sostegno alla futura memoria, perché nulla andasse disperso della storia di un’anima (quella del Papa, certo; ma di riflesso anche quella del suo segretario), senza alcuna ricercatezza letteraria. Può sembrare incongrua, per esempio, l’aggiunta delle virgolette alla parola finestra, ma forse don Capovilla sentiva di doverne sottolineare l’aspetto simbolico: il suo essere figura della soglia che separa l’esistenza terrena da quella sperata nella fede; un diaframma di luce che separa e insieme unisce la stanza dell’agonia e le «molte stanze» preparate nella dimora del Padre secondo il Vangelo di Giovanni (XIV,2). Questa la pagina di quella giornata:

26 maggio domenica

6.30: Studio del Papa che fa la comunione. Sereno, sollevato. Altra emorragia! Sul primo mattino. card. segretario di stato, poi viene anche Dell’Acqua. Ci accordiamo per un bollettino ufficioso. Non ci sarà il “Regina coeli”.

Ore 20.30

Sr Angela Roncalli. Io riposo un’ora, poi vado alla Grotta di Lourdes. In giardino. Solitudine, serenità, confidenza.

Ore 12: Per la prima volta  gli occhi si puntano invano sulla “finestra”. Mestizia grande. Santo Padre dice l’Angelus a letto, poi riposa fino alle 16.

Fiducia in Dio e negli uomini

Vero testamento spirituale – era stata promulgata a meno di due mesi dalla morte – la Pacem in terris voleva indicare con spirito paterno la strada per «costruire un mondo di pace, sempre più saldamente fondato sui quattro pilastri che il beato Giovanni XXIII ha indicato a tutti nella sua storica Enciclica: verità, giustizia, amore e libertà»: così nella giornata per la Pace del 2003 scriveva Giovanni Paolo II. E quella strada Papa Giovanni poteva indicare ai popoli di tutto il mondo perché «era persona chenon temeva il futuro. Lo aiutava in questo atteggiamento di ottimismo quella convinta confidenza in Dio e nell’uomo che gli veniva dal profondo clima di fede in cui era cresciuto. Forte di questo abbandono alla Provvidenza, persino in un contesto che sembrava di permanente conflitto, non esitò a proporre ai leader del suo tempo una visione nuova del mondo. È questa l’eredità che egli ci ha lasciato. Guardando a lui […] siamo invitati ad impegnarci in quei medesimi sentimenti che furono suoi: fiducia in Dio misericordioso e compassionevole, che ci chiama alla fratellanza; fiducia negli uomini e nelle donne del nostro come di ogni altro tempo, a motivo dell’immagine di Dio impressa ugualmente negli animi di tutti. È partendo da questi sentimenti che si può sperare di costruire un mondo di pace sulla terra».

Documento nato dal fuoco che ha avvampato un secolo intero con milioni di morti, il messaggio giovanneo getta una luce anche sul secolo attuale, quando una guerra nel cuore dell’Europa ci ricorda anche i tanti altri conflitti che insanguinano la Terra, verso i quali siamo stati e siamo colpevolmente indifferenti.

Alle molte riflessioni di monsignor Capovilla sulla Pacem in terris l’amico Renzo Salvi ha dedicato un denso articolo apparso sulla rivista La Rocca del primo aprile 2003, in cui ha pubblicato la trascrizione completa di un’intervista per la Radio Vaticana dell’11 febbraio 1983. Il contributo di Salvi serve anche da utile introduzione al documento che segue, preparato per La Discussione, la rivista di riflessione politico-culturale della Democrazia cristiana. Si tratta di un testo di sette pagine dattiloscritte, con poche aggiunte manoscritte, tratto dalla cartella appositamente dedicata all’enciclica giovannea e conservata nell’archivio del Cardinale.

Discussione

9.4.83

1963 11 APRILE 1983

RIFLESSIONI SULL’ENCICLICA PACEM IN TERRIS

Genesi del documento

L’enciclica Pacem in terris compie vent’anni. Essa conserva tutta la freschezza primaverile del suo primo apparire in cena Domini, il giovedì santo dell’anno del Signore 1963.

Sbocciata nel contesto prodigioso del pontificato giovanneo e nel clima favorevole instauratosi a seguito della pubblicazione dell’altro documento sociale, la Mater et Magistra (15 maggio 1961), si è insediata magnificamente nei solchi tracciati dal Concilio Vaticano II.

La sua origine va ricercata tra le righe del discorso Ecclesia Christi lumen gentium (11 settembre 1962), là dove papa Giovanni dissertava sull’ attività della chiesa ad extra, ministero che essendo apostolico la obbliga a far onore alle proprie responsabilità a vantaggio di tutti i popoli: «È da questo senso di responsabilità in faccia ai doveri del cristiano chiamato a vivere uomo tra uomini, cristiano tra cristiani, che quanti al tri, pur non essendolo di fatto, debbono sentirsi eccitati da buon esempio a divenirlo».

Con tutta evidenza, senza invadere campi non suoi, la chiesa affermava di volersi applicare con rinnovato impegno ad «avviare l’uomo sul cammino della verità», essendo verità e libertà «le pietre dell’edificio su cui si estolle la civiltà umana». Nel prosieguo del discorso, il papa toccava liricamente ed efficacemente il tema della pace: «Il Concilio ecumenico sta per adunarsi a diciassette anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta nella storia, i padri conciliari apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi. Le madri e i padri di famiglia detestano la guerra; la chiesa, madre di tutti indistintamente, solleverà una volta ancora la conclamazione che sale dal fondo dei secoli e da Betlemme, e di là sul Calvario, per effondersi in supplichevole precetto di pace: pace che previene i conflitti delle armi, pace che nel cuore di ciascun uomo deve avere sue radici e garanzia. È naturale che il concilio nella sua struttura dottrinale e nell’azione pastorale voglia esprimere l’anelito dei popoli a percorrere il cammino della Provvidenza segnato a ciascuno, per cooperare al trionfo della pace, a rendere più nobile, più giusta e meritoria per tutti l’esistenza terrena» (DMC, IV pp. 520-528).

La Pacem in terris, ideata dall’urgenza di placare l’angoscia dell’umanità contemporanea, apparve il naturale corollario dell’imprescindibile dovere che ha la chiesa di evangelizzare.

Per analogia citeremo quanto papa Giovanni confidava a proposito della  genesi dell’idea del concilio:

«Da un interrogativo posto in un particolare colloquio con il segreta rio di stato procedette la constatazione circa il mondo immerso in gravi angustie ed agitazioni. Rilevammo, tra l’altro, come si proclami di volere la pace e l’accordo, ma, purtroppo, talora si finisce con l’acuire dissidi ed accrescere minacce. Che cosa farà la chiesa? Deve la mistica navicella di Cristo rimanere in balìa dei flutti ed essere sospinta alla deriva, o non è piuttosto da essa che si attende non solo un nuovo monito, ma anche la luce di un grande esempio?» (DMC, IV, p. 258).

La chiesa, che riconosce nel suo Fondatore il «principe della pace», proponeva all’attenzione degli uomini «la teologia della pace», in senso agostiniano, come «tranquillità dell’ordine», come «frutto della giustizia». Conseguentemente il magistero trattava con ampiezza di respiro del retto ordinamento della vita civile cioè dell’ordine politico della giusta e libera convivenza, muovendosi dal fondamento più profondo. Non si accontentava di condannare o ripudiare il ricorso alle armi; voleva rendere inevitabile la pace. Chi non si pone subito in questa prospettiva, passa accanto alla profezia senza capire nulla. Tutte le volte che nell’enciclica legge la parola pace, provi ciascuno a sostituirla con altre parole quali ordine, moralità, convivenza, diritto, sana amministrazione pubblica, giustizia politica, allora tutto diverrà più chiaro ed esaltante.

Crisi di Cuba

I fatti accaduti nel Mar dei Caraibi nell’ottobre 1962, allorquando le due superpotenze si fronteggiavano minacciosamente, ebbero ripercussione sia sui lavori del concilio appena avviati, sia nella determinazione di accelerare la stesura del documento pontificio, interprete del grido accorato fatto echeggiare sotto le volte della Cappella Sistina, sotto lo sguardo di Cristo giudice, all’indomani dell’apertura del Concilio: «La mano sulla coscienza, ascoltino i reggitori dei popoli il grido angoscio- so che da tutti i punti della terra, dai bimbi innocenti e dagli anziani, dai singoli e dalle comunità sale verso il cielo: pace, pace». Il radiomessaggio papale del 25 ottobre giovò alla causa della distensione, come testimoniarono i massimi responsabili delle nazioni, i quali accolsero di buon grado la supplica del papa «a risparmiare all’umanità gli orrori di una guerra di cui nessuno potrebbe prevedere le catastrofiche conseguenze»; «a promuovere, favorire, accettare trattative a tutti i livelli ed in ogni circostanza», essendo questa «la regola di saggezza e di prudenza che attira le benedizioni del cielo e della terra» (DMC, IV, pp. 614-615).

Qualche mese dopo, Nikita Kruscev avrebbe scritto al cancelliere tedesco Adenauer: «Sono comunista e ateo, non posso quindi condividere le concezioni filosofiche del papa, ma il suo appello in favore della pace, lo apprezzo e lo appoggio». Questa disponibilità dei capi di stato alla riflessione incoraggiò indubbiamente l’elaborazione dell’enciclica, e suscitò enorme speranza.

Dissenzienti

Nei giorni scorsi il quotidiano La repubblica ha scritto che io avrei ammesso un certo dissenso in seno alla curia sulla stesura del documento. Non ho detto esattamente questo. Ho affermato che non mancarono perplessità, ma di sicuro non nei diretti collaboratori del papa, e nemmeno negli istituti ecclesiastici superiori, che vennero consultati e diedero efficace apporto alla completezza del documento.

Certo i commenti in vario senso, non del tutto disinteressati, apparsi sulla stampa nei mesi di aprile-maggio 1963 lasciarono indovinare qualche dissenso o riserva nell’area cattolica. A domanda circa difficoltà incontrate da papa Giovanni, rivoltami durante la trasmissione televisiva di Acquario, cinque anni or sono, risposi in modo così poco soddisfacente che  il giorno dopo sulla Repubblica apparve il corsivo, stilato da un noto giornalista, intitolato «Credere obbedire omettere». Ci si aspettava che io scivolassi nella polemica. Grazie a Dio, ho imparato che l’unum tra noi, l’unità voluta da Cristo, coesiste nella complessità delle situazioni e nella diversità dei carismi.

Può accadere, pertanto, che in buona fede e in spirito di servizio un documento o un evento ecclesiale abbiano diverse interpretazioni, a motivo delle sfumature esegetiche che alcuni pronunciamenti comportano. Magari accade pure specie nella nostra area latina, che si tenda a politicizzare tutto, sino a valutare un documento dottrinale nell’ottica di particolari contingenze politiche locali. La Pacem in terris ha conosciuto un poco questo dramma. Adesso la «pura dottrina» rivela tutta la sua attualità e la sua capacità di attrazione.

Udienza Adjubei

Son trascorsi vent’anni dal 7 marzo 1963, allorquando Alexis Adjubei, direttore del quotidiano Izvestia e sua moglie Rada Krusciova varcarono la soglia della biblioteca del Papa, per un incontro che meriterebbe di essere catalogato o tra i “fioretti” francescani o tra le più ardite imprese pastorali.

L’episodio, che fece allora tanto scalpore, non è stato ricordato adesso da nessuno. Resta il fatto emblematico di un incontro evangelico, come ho spiegato nel volume: «Giovanni XXIII, Lettere 1958-1963», dove tratto ampiamente questo tema del «colloquio».

Mi accontento di riferire la risposta di papa Giovanni al timido accenno di Adjubei a possibili canali per un contatto diretto su casi concreti quale era stato, un mese prima, la scarcerazione del metropolita Josyf Slipyj, liberato senza condizioni, come gesto di buona volontà e dono al «papa della pace», ma fatto passare attraverso i canali della diplomazia italiana e statunitense e la mediazione del patriarcato di Mosca.

Disse papa Giovanni: «Lei è giornalista. Conosce certo la Bibbia. Vi si legge che il Signore impiegò sei giorni per creare il cielo e la terra. Si tratta, ben inteso, di ere geologiche. Nel primo giorno, la prima parola creatrice: Fiat lux. Così, per oggi, la luce dei miei occhi mei vostri. È già molto. Se è nei disegni dell’Onnipotente, faremo altri passi, ispirandoci al criterio della prudenza, che è la prima delle virtù cardinali, secondo opportune intelligenze coi miei più immediati collaboratori. Iddio ha impiegato sei giorni per creare il mondo; noi che siamo meno potenti di lui dobbiamo apprendere la lezione e procedere per tappe. Senza precipitazione, preparare l’opinione pubblica a questi rispettosi contatti. Attualmente un tale passo non sarebbe compreso. Continuiamo intanto a lavorare alla riconciliazione di tutti i popoli con discrezione e fiducia» (giovanni xxiii, Lettere 1958-1963, Ed. St. e Lett. Roma 1978, p. 455). In questa risposta c’era già il succo della parte quinta della Pacem in terris: la legge della gradualità, il compito immenso, errore ed errante; possibili intese; dottrine e movimenti; respiro ecumenico e missionario.

Rilettura del documento

La rilettura di Pacem in terris si impone, coniugata con le ulteriori illuminazioni magisteriali di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. Anzitutto occorre soffermarsi sul paragrafo fondamento, il primo: «La pace anelito profondo degli esseri umani può venire instaurata e consolidata solo nel rispetto dell’ordine stabilito da Dio», poi abbracciare tutto il testo dall’altezza del paragrafo 168, che ne è il coronamento: «La pace rimane solo vuoto suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato ed integrato dalla carità e posto in atto nella libertà».

Nel loro insieme citerei i paragrafi dall’8 al 31, contenenti il codice dei diritti dell’uomo, il decalogo dei comandamenti degli uomini politici: I. Riconoscete a ciascun essere umano il diritto di vivere in dignità. 2. Favoritelo nella ricerca del vero. 3. Consentitegli di onorare Iddio. 4. Rispettate la sua vocazione. 5. Riconoscete il preminente diritto dei genitori all’educazione dei figli. 6. Abolite la disoccupazione. 7. Retribuite con giustizia ed equità. 8. Concedete libertà di associazione. 9. Aprite le frontiere. 10. Attuate il diritto di voto.

Converrà riflettere sui paragrafi: 35, autorità e libertà; 113, il disarmo integrale, che presuppone il disarmo dei cuori; il 127 che condanna senza appello la guerra nucleare, avvertendo che mentre il testo italiano dice che riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia; il testo latino afferma categoricamente: «alienum est a ratione», è irrazionale, è – si direbbe – diabolico farneticare di guerra atomica!

L’uomo

Quest’anno celebriamo i vent’anni non solo dell’enciclica Pacem in terris e della liberazione del metropolita patriarca Slipyj, ma anche il ventennio della celebrazione della Pace nella Basilica Vaticana e al Quirinale (10-11 maggio) e il ventennio della morte di papa Giovanni (3 giugno). Piacemi conchiudere con alcune sue parole sul letto di morte, onnicomprensiva testimonianza del suo spirito di pace, del suo servizio di pace, del suo testamento di pace (24 maggio 1963):

«Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale, e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della chiesa cattolica. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale, ci hanno condotto dinanzi a realtà nuove, come dissi nel discorso di apertura del concilio. Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio…».

In questa estrema ed estemporanea “confessione” del figlio della campagna bergamasca, in limine vitae, esulta già il prefazio della Gaudium et Spes, la costituzione pastorale nella Chiesa e il mondo contemporaneo. Non è piccola cosa. Non è un semplice fiore. È davvero un seme di pace.

Caro Padre, in questo anno di anniversari, ancora di più attingo dalle sue memorie e mi fa e ci fa capire quanto lei abbia lavorato nell’ombra per ricordare e diffondere la memoria di Papa GIovanni.

Con affetto suo Ivan

Oboedientia et pax